ETIOPIA 1937: IL MASSACRO DIMENTICATO

Il 9 maggio 1936 il Regno d’Italia occupa l’Etiopia e la integra nell’Africa Orientale Italiana, comprendente anche Etiopia, Somalia ed Eritrea. Il controllo dell’Etiopia sarà affidato al gerarca fascista Rodolfo Graziani, che assumerà il titolo di Vicerè d’Etiopia.

“Il 19 febbraio 1937, in occasione della nascita di Vittorio Emanuele, primogenito di Umberto II di Savoia, il Vicerè ordina di preparare una cerimonia pubblica nel giorno della festa della Purificazione della Vergine, secondo il calendario copto. Graziani decide di imitare un’usanza etiope: distribuire due talleri d’argento a ciascun povero di Addis Abeba, uno in più di quanto ha sempre distribuito Hailè Selassiè. Così, una folla di derelitti confluisce nel cortile del palazzo imperiale. Improvvisamente, due intellettuali eritrei (Abraham Debotch e Mogus Asghedom) lanciano contro il palco 7 o 8 bombe a mano uccidendo quattro italiani, tre indigeni e ferendo una cinquantina di persone, tra cui lo stesso Graziani. Dopo alcuni momenti di panico, i militari italiani e gli ascari libici (paracadutisti dell’esercito italiano di nazionalità libica) reagiscono: chiusura delle vie di fuga, 3 ore di fuoco di fucileria e colpi di scudiscio sulla folla. Nei giorni successivi si scatenano le rappresaglie. Scrive Ciro Poggiali, giornalista che assistette a quegli eventi: « Tutti i civili che si trovano ad Addis Abbeba, in mancanza di una organizzazione militare o poliziesca, hanno assunto il compito della vendetta condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. Vengon fatti arresti in massa; mandrie di negri sono spinti a tremendi colpi di curbascio come un gregge. In breve le strade intorno al tucul sono seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Lo scempio si abbatte contro gente ignara ed innocente. 20 febbraio 1937, sabato: sono stato a visitare l’interno della chiesa di San Giorgio, messa a fuoco e fiamme per ordine del federale Cortese. Alla sera, cerco invano di ottenere dal colonnello Mazzi di telegrafare al giornale. Gli ordini di Roma sono tassativi: in Italia si deve ignorare. Intanto, l’opera di distruzione dei tucul continua. Spettacoli da tragedia delle immense fiammate notturne. La popolazione indigena è tutta sulla strada. Impressionante indifferenza dei capannelli di donne e di bambini intorno alle masserizie fumanti. Non un grido, non una lacrima, non una recriminazione. Mi narrano che un suddito americano, per avere soccorso un ferito abissino, è stato bastonato dalle squadre dei randellatori». Scrive Harold Macus: «Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. Addis Abeba era di fatto isolata dal mondo. Nel pomeriggio il partito fascista locale votò un pogrom, una sollevazione popolare contro i cittadini. Il massacro iniziò la notte stessa: gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire. Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte. Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte».

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Rodolfo Graziani, Capo di Stato Maggiore e Vicerè d’Etiopia

Il 20 febbraio il Duce scrive a Graziani e parla di «repulisti, di passare per le armi e senza indugi tutti i civili e religiosi comunque sospetti». Le violenze continuano; circa 700 indigeni, rifugiatisi nell’ambasciata inglese, vengono fucilati appena usciti da questa». Non si conosce il numero esatto delle vittime nei primi giorni successivi all’attentato. Fonti etiopi parlano di 30mila vittime, fra 3mila e 6mila secondo la stampa straniera del tempo. Gli attentatori, nel frattempo, non si trovano. Così, decine di notabili e ufficiali etiopi vengono fucilati alla fine di febbraio. Tra marzo e novembre, 400 abissini vengono imprigionati e deportati in Italia con cinque piroscafi. Intere famiglie con donne e bambini sono confinate nel campo di concentramento di Danane, sulla costa somala, dopo aver sostenuto un lungo viaggio di 15 giorni con morti per stenti e malattie varie. Il primo convoglio per Danane parte per Addis Abeba il 22 marzo, arrivando a destinazione solo il 7 aprile. Comprende 545 uomini, 273 donne e 155 bambini, ma moltissimi muoiono sulle strade battute continuamente dalla pioggia. Seguiranno altri cinque convogli per un totale, secondo fonti italiane, di 1800 unità (gli etiopi parlano di circa 7mila). Secondo la testimonianza di Micael Tesemma, che trascorse nel campo tre anni e mezzo, su 6500 internati ben 3175 perdono la vita per scarsa alimentazione, acqua inquinata e malattie. Lo stesso direttore sanitario del campo, avrebbe accelerato la fine di alcuni internati con iniezioni di arsenico e stricnina. Il 28 febbraio Graziani propone di radere al suolo la parte vecchia della città di Addis Abeba e di internare tutta la popolazione, ma Mussolini si oppone per paura di forti reazioni internazionali, pur confermando ed estendendo l’ordine di passare per le armi tutti i sospetti. A marzo Graziani ordina di fucilare tutti i cantastorie, gli indovini e gli stregoni di Addis Abeba e dintorni, in quanto responsabili di annunciare nei vari mercati la fine prossima del dominio italiano. L’iniziativa è approvata da Mussolini. Tra il 27 marzo ed il 25 luglio 1937 si realizzano 1877 esecuzioni. Da una statistica dell’Attività dell’Arma dei Carabinieri, si ricava che solo i carabinieri hanno passato per le armi 2509 indigeni.

Sempre Ciro Poggiali, racconta di un capitano italiano che, dopo aver fatto razzia di bestiame a danno di una famiglia indigena, di fronte alle proteste del capofamiglia, uccide tutta la famiglia compresi i bambini. E ancora: « sul piazzale del Tribunale assisto al trasporto, dopo la condanna per furto, di un giovinetto moribondo per denutrizione. Un altro non si regge in piedi per le botte. I carabinieri che hanno in custodia i prevenuti da presentare alla “giustizia”, hanno importato dall’Italia, moltiplicandoli per mille, i sistemi polizieschi più nefandi». Anche i reparti militari sul territorio partecipano alle repressioni: il capitano degli Alpini Sartori, è incaricato di eliminare 200 Amhara catturati nei dintorni di Soddu. L’ufficiale li ammassa in una grande fossa scoperta tra i dirupi e ordina ai suoi ascari di sparare. Il ricordo della carneficina turberà il resto della vita del capitano, che morirà smemorato, qualche anno dopo, in una prigione del Kenya. Da maggio in poi avviene la distruzione della chiesa copta. La tesi è quella di un complotto cui non è estraneo l’aiuto degli inglesi e della comunità ecclesiale copta. Il battaglione eritreo, composto in gran parte da copti, viene sostituito con uno somalo mussulmano, più adatto alla repressione dei cristiani. Le truppe del generale Pietro Maletti partono per la rappresaglia: 115.422 tucul, tre chiese ed 1 convento incendiati, 2523 i “ribelli” giustiziati. Dopo la distruzione del convento di Gulteniè Ghedem Micael, il 13 maggio, e la fucilazione dei monaci, Debrà Libànos viene accerchiata per punire i religiosi accusati di aver dato rifugio ai due attentatori di Graziani. Il 19 arriva un telegramma di Graziani che conferma la complicità dei monaci nell’attentato e ordina di passare tutti i monaci per le armi. Il 20 mattina tutti i religiosi catturati vengono caricati sui camion. All’una le esecuzioni sono terminate per riprendere poi, il 26 maggio, quando 129 giovani diaconi vengono trucidati. Fino al 27 maggio vengono passati per le armi 449 tra monaci e diaconi. Stando alle Università di Nairobi e Addis Abeba, i numeri del massacro si aggirerebbero tra i 1423 ed i 2033 uomini.

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Impiccagioni in Etiopia

Le vittime, trasportate sul luogo dell’eccidio da una quarantina di camion, vengono incappucciate e fatte accucciare sul bordo di un crepaccio, uno a fianco all’altro. Le mitragliatrici sparano in continuazione per cinque ore, interrotte solo per buttare i cadaveri nel crepaccio. Coperto dall’approvazione di Mussolini, Graziani rivendicò «la completa responsabilità» di quella che definì con orgoglio la «tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia», soddisfatto di «aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti». Nel dopoguerra, nonostante le richieste etiopiche, nessun italiano venne mai punito per questi e per altri massacri, favorendo la rimozione dalla memoria collettiva dei crimini compiuti dagli italiani durante le guerre fasciste. Michele Strazza, avvocato e ricercatore di storia contemporanea”.

Fonte:  http://win.storiain.net/arret/num146/artic5.asp