Israele & Palestina: psicologia e provocazione

La Striscia di Gaza è sempre più infuocata e macchiata del sangue delle vittime di questa follia bellica innescata da Israele e Hamas. La comunità internazionale, che dovrebbe essere rappresentata soprattutto dall’ONU, si ritrova impotente più di altre volte, causa sicuramente gli interessi che ruotano attorno allo Stato d’Israele. Lo dimostra il fatto che, fin dall’inizio dell’ostilità, Israele ha realizzato crimini contro l’umanità, molto probabilmente ha violato il divieto di aggressione, ha bombardato consapevole che avrebbe potuto fare un elevatissimo numero di vittime civili, di profughi etc. Insomma, la situazione peggiora di giorno in giorno alimentata dalle timidezze degli organi preposti alla pace e sicurezza internazionali. Però, mettiamo caso che chi di dovere si ritrova unito e forte nel condannare, non solo a parole, le azioni di Israele: quale sarebbe la soluzione definitiva ad una questione che, da oltre mezzo secolo, non si riesce a risolvere? Sicuramente, sancire una divisione del territorio interessato, attribuendone parte ad Israele e parte allo Stato oggi governato da Hamas, è un tentativo già provato e che ha dimostrato i suoi limiti (piano di ripartizione della Palestina del 1947). Si otterrebbe solo l’ennesima (inutile) «tregua temporanea», con Israele disposto a non rispettare, di nuovo, risoluzioni ONU. Allora, forse, conviene dar vita ad una soluzione drastica, che possa risolvere definitivamente la questione. Occorre però partire da un aspetto, per alcuni forse ridicolo, per altri no, ma comunque poco considerato: quello storico – psicologico. Sappiamo ormai tutti che il popolo ebraico è sempre stato oggetto di persecuzioni: dall’antichità, passando per il Medioevo e l’età moderna, fino ad arrivare alla drammatica fase dello sterminio compiuto dai nazisti. Prendendo la storia come eventi isolati, si capisce ben poco di ciò che intendo dire; considerandola invece come una successione di fatti dello stesso tipo (in questo caso ne sono parole chiave: ebrei, persecuzioni) si può ben comprendere che, forse, il popolo «eletto da Dio» ha sviluppato un pensiero secondo cui qualsiasi minaccia nei suoi confronti è da prendere seriamente, rispondendo con la forza per difendersi, piaccia o meno che ci vadano di mezzo (soprattutto) i civili. Dinanzi a tale problema, sperare che entrambe le parti diventino «buoni vicini di casa» è una pazzia. Almeno che l’ONU non intervenga con i caschi blu contro una delle due parti o, perlomeno, con delle sanzioni. Ma, al momento è semplice utopia. Paradossalmente, sarebbe meno utopistico trovare un nuovo punto del pianeta in cui stanziare i palestinesi, permettendo loro di vivere in pace senza il timore di bombe o razzi, lasciando a Israele la possibilità di (ri)occupare i territori e non avere più troppe giustificazioni per attaccare militarmente ad ogni minima offesa. D’altronde, quando tutte le soluzioni “normali” vengono meno, quando una comunità internazionale tende a tutelare più i suoi interessi che quelli dei civili, tanto vale trovare un risultato in grado di accontentare tutti: “magnaccia” e innocenti.

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